Siamo tutti mezzibusti. Da quando ci ha travolto l’emergenza sanitaria siamo diventati come i conduttori dei tg. Donne e uomini a metà. Non sono mai stata tanto tempo davanti a una telecamera, il piccolo obiettivo del pc. Le giornate trascorrono tra webinar, riunioni, talk ed eventi live. Una regia tecnica accende i microfoni. Abbiamo imparato a parlare a turno, ci interrompiamo meno. Ma non sempre ascoltiamo di più, perché quando non è il nostro turno tendiamo a distrarci, a guadagnare tempo per fare altro. Parliamo di più, ma conversiamo poco.
È questa l’anemia digitale che allarma lo psichiatra Paolo Crepet nel suo ultimo libro “Vulnerabili” (Mondadori, 2020)?
Cos’è l’anemia digitale
Siamo più irritabili ma ci arrabbiamo meno, siamo sempre meno coinvolti. Lasciamo andare, passiamo oltre. Siamo perennemente distratti da altro. Affaticati, prigionieri di una stanchezza che non siamo in grado di definire. L’espressione “stupidità emotiva” mi ha colpito. Ci preoccupiamo di sviluppare nei giovani l’intelligenza emotiva, perché la scuola non ci riesce, visto che le competenze per la vita non sono adeguatamente integrate negli obiettivi di apprendimento. La scuola fa ancora fatica a metabolizzare come la salute sia uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non semplice assenza di malattia o di infermità. Gli alunni più fragili, non sostenuti, corrono un rischio maggiore di ammalarsi e di essere vittima di stigma. Tra le nuove emergenze c’è l’aumento dei ragazzi “in disparte” (hikikomori), anche se ancora non sono disponibili stime ufficiali (oltre 100mila?) per quantificare le dimensioni del fenomeno. Il sociologo Umberto Galimberti nel saggio “L’ospite inquietante” (Feltrinelli) usa un’immagine molto forte, parla di “educazione emotiva espulsa dalla scuola”, come “causa prima del disagio giovanile”.
“Mentre a lavorare ce lo hanno insegnato intere generazioni prima di noi, a essere semplicemente uomini non ce lo ha mai spiegato nessuno. Forse che in un liceo un ragazzo o una ragazza possono assistere a una lezione sull’arte di amare? Qualcuno insegna loro che cosa significa empatia, sensibilità, complicità?”, insiste Crepet.
E noi adulti? Donne e uomini a metà, ci stiamo lasciando andare alla deriva, sempre più simili ai “mezzi uomini” di Sciascia? Cosa può frenarci dallo scivolare ancora tra le altre categorie dell’umanità? Ci trasformeremo ne “gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà”?
Il progetto Fattore J
La scorsa settimana abbiamo coinvolto oltre 500 studenti in una sessione formativa online sulla salute mentale. Con il progetto Fattore J, promosso con Janssen Italia, stiamo formando 100mila giovani all’inclusione, alla diversità e all’empatia verso le persone affette da malattie. Diamo alla comunità scolastica strumenti per riconoscere ed esprimere le emozioni, prendere atto di uno stato di disagio proprio o altrui, e trovare il modo migliore per chiedere aiuto. Cerchiamo di aumentare il livello di attenzione sulla salute degli adolescenti per evitare che le diagnosi arrivino troppo tardi. Il percorso prevede anche sei eventi regionali dedicati alle diverse aree terapeutiche del progetto. Siamo partiti dalla Sicilia in occasione della Giornata mondiale della salute mentale con l’associazione Progetto Itaca (vedi Crescere in emergenza).
Come si riconoscono i primi sintomi della depressione? Quando il malessere si trasforma in vero e proprio disagio? Cosa può fare la scuola? Una giovane donna ha generosamente raccontato agli studenti la sua storia di sofferenza con una esortazione forte a non aver paura, a non farsi imprigionare da stigma e vergogna. Un racconto semplice ma intenso. A mezzobusto. Così ho messo a fuoco la sfida che dobbiamo affrontare insieme alla scuola. Non importa essere interi. Non importa per quanto tempo ancora ci parleremo guardandoci a metà. Non importa se tornerà per tutti la “scuola a mezzobusto”, costruita sulla paradossale didattica a distanza. Oggi non importa essere interi, ma essere “integri”. A questo dobbiamo puntare. A conservare la nostra integrità di essere donne e uomini e lo possiamo fare solo se smettiamo di perdere per strada pezzi importanti della nostra umanità. Dobbiamo recuperare tutta la gamma delle nostre emozioni, imparare a riconoscerle e a gestirle. Superare paure e ansie. Tornare a sorridere, ad ascoltare. A indignarci, a sorprenderci, magari con una gentilezza inaspettata. Ci siamo tutti? Contiamoci, come fa il pastore con le pecore.
Contiamoci!
A fine giornata contiamoci, usiamo la tecnologia per essere più attenti, più coinvolti, per raggiungere chi non sentiamo da tempo, un amico lontano o un anziano solo. Solo questo ci può rendere invincibili contro l’anemia digitale. Riempiamo le nostre giornate di calore, lasciamo spazio all’intelligenza emotiva nella risoluzione dei nostri problemi quotidiani. Trasformiamo i nostri dispositivi elettronici in sensori diffusi, per renderci più attenti, più vigili, più sensibili, comunità aperte e coinvolgenti. Scopriamoci interconnessi, nutriamo le relazioni, pensiamoci e sentiamoci pensati. Pratichiamo la “simpatria”, la capacità di vivere in contatto nonostante le differenze.
Quando l’emergenza sanitaria sarà terminata e la scuola a mezzobusto solo un ricordo, ci scopriremo di nuovo interi e finalmente più integri. E perfino guariti, capaci di usare le macchine con più intelligenza. Perché di certo non sono solo loro a renderci più stupidi!